Nell’ottocento operistico italiano ritroviamo uno dei musicisti di cui poco si parla e che invece andrebbe rivalutato e studiato per la sua valenza di compositore e docente:Amilcare Ponchielli (Paderno 1834 – Milano 1886). Nato nella provincia di Cremona, iniziò gli studi al Conservatorio di Milano dove, dal 1883, insegnò composizione ed ebbe come allievi altri due futuri grandi protagonisti delle scene operistiche italiane: Giacomo Puccini e Pietro Mascagni.
Erano gli anni della Scapigliatura Milanese, quando da maestro di cappella nella chiesa di S. Maria Maggiore, a Bergamo nel 1861, ottenne la sua affermazione come operista con la sua prima composizione teatrale I Promessi Sposi , già composta e rappresentata a Cremona nel 1856 su libretto anonimo, ma in seguito rielaborata su libretto di E. Praga ed andata nuovamente in scena al Teatro Dal Verme di Milano nel 1872, che gli valse una scrittura al Teatro alla Scala di Milano.
Ad un altro notevole successo con I Lituani (1874), seguì il trionfo con la sua Gioconda sempre alla Scala, su libretto di Tobia Gorrio, uno pseudonimo di Arrigo Boito (prima versione 1876; seconda versione 1880).
La produzione operistica di Ponchielli si colloca in un momento difficile del melodramma italiano, visto il mutato clima morale che segue la fine degli anni risorgimentali; Verdi cerca ormai vie nuove, ma i suoi epigoni si rifanno ancora alle sue opere di maggior successo e ne riducono i caratteri a formule e a ricerca di sicuri effetti.
Tra questi epigoni Ponchielli si inserisce con dignità: La Gioconda, che è la sua opera più riuscita e l’unica rimasta in repertorio ad oggi, si avvale di un libretto abile, tutto improntato al gusto spettacolare del grand-opéra.
Di forti tinte passionali e drammatiche, La Gioconda è il tipico esempio di opera popolare romantica, che tiene conto delle precedenti esperienze verdiane, con una scrittura vocale di effetti teatrali che preludono il verismo. Il soggetto dell’opera, che si ispira al dramma “Angelo, tyran de Padoue” di V. Hugo, ambientato nella Venezia del sec. XVII, rappresentò, per il librettista Boito, soprattutto l’azione da lui svolta per aprire il gusto letterario e musicale italiano, che riteneva “provinciale”, a influenze europee talvolta sopravvalutate.
Anche non evitando l’enfasi, il lirismo elegiaco di Ponchielli in quest’opera diede frutti melodicamente pregevoli. A tal proposito è bene ricordare alcune arie e danze famose di quest’opera: l’aria della Cieca – “A te questo rosario”; l’aria di Barnaba – “O monumento”; la famosissima“Danza delle Ore”; l’aria di Gioconda –“Suicidio!”.
Successivo alla Gioconda è Il figliuol prodigo (1880) che risulta il più meditato dei suoi lavori per stile e struttura, mentre Marion Delorme (1885) risente l’accentuarsi di una vena quasi crepuscolare già presente, a dire il vero, anche in Gioconda.
Ma fu Arrigo Boito ( Padova 1842 – Parigi 1918), in veste di operista, compositore e letterato, ad imporsi nella rosa degli operisti italiani con il suo Mefistofeledel 1881, data della stesura definitiva dell’opera, che lo consacra agli altari, grazie anche alle sue fortunate collaborazioni con l’ultimo Verdi per il Simon Boccanegra, Otello e Falstaff, rubando così definitivamente la scena ad Amilcare Ponchielli, che scrisse a seguire poca musica: 3 opere, 1 operetta, 1 farsa e 2 balletti.
Il contributo di A. Boito alle creazioni dell’ultimo Verdi fu di grande rilievo: nel nuovo librettista il grande compositore di Busseto trovò un collaboratore capace di soddisfare le sue ultime e più complesse esigenze drammatiche; e fu appunto nell’ultimo Verdi che si realizzò compiutamente quella fusione tra musica e dramma, ed il superamento delle forme chiuse tradizionali che Boito aveva perseguito nelle proprie opere con esiti tanto meno persuasivi.
Nella poetica di Boito, significativa più per le intenzioni che per i risultati, la musica si configura romanticamente come momento supremo dell’arte, cui la poetica tende come a una sorta di inveramento assoluto.
La produzione letteraria di A. Boito, di cui vanno ricordati almeno il Libro dei versi, L’alfier nero e Re Orso, appare più interessante di quella musicale, pur con ciò che presenta anch’essa di irrisolto.
L’irrisolto, il non compiuto sono d’altronde le forme stesse dell’ispirazione di Boito, fondata sull’antitesi, intimamente sofferta, tra il Bene e il Male: un dualismo che nella sua musica si realizza perlopiù in modi schematici e forzati, apparentemente innovatori, ma in realtà condizionati e limitati da un gusto eclettico, che deriva in parte da Meyerbeer e dalla romanza da salotto.
In definitiva possiamo affermare che più “scapigliato” di così non poteva essere certamente, visti gli anni tumultuosi in cui ha vissuto, lasciando a noi oggi notevoli e pregevoli testimonianze.
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